Per parlare con uno che ha fede

O della vita come il SuperEnalotto

Un uomo che ha fede crede, per definizione, in ciò che non si può spiegare. Per parlare con me, che non ho fede, che non credo in ciò che non si possa spiegare (come si fa con le vele: aprirle, far sì che il vento le gonfi, che servano a viaggiare),è costretto a chiedermi di salire con lui sul carro dell’assurdo, dell’illogico, dell’incomprensibile, del mistero. 

Io per parlare con lui, e per comunicargli la mia visione del mondo, non ho bisogno di fare ciò. Per trasmettergli la mia (?) idea di causalità, la mia idea di origine e fondamento del mondo, dell’uomo, dell’etica, il mio senso della vita che da queste premesse deriva, non lo costringo a credere nell’assurdo: semplicemente nell’accertato e, dove non ci sia accertamento di verità (ancora), nel possibile, nel fortemente probabile, nel, in sintesi, buon senso. Io parlo la lingua comune, io parlo il metodo della logica, della scienza, della razionalità. Il mio discorso, contestabile e migliorabile (contestabile in quanto migliorabile, affinché sia migliorato), è comunque comprensibile. Porta prove a sostegno, esperimenti e risultati, teorie suffragate dai fatti, fatti che fioriscono sotto l’occhio attento delle teorie che vogliono giustificarli. 

La fede non ha tutto questo armamentario a disposizione. La fede ha la scelta (perché è una scelta) individuale di immergersi nell’assurdo, nel mistero, accettandolo senza pretese di svelarlo, poiché esso si dovrebbe svelare (togliere il velo) da solo, una volta che la vita finisce e il mistero ha il suo compimento finale. Un circolo vizioso: credo nella vita dopo la morte, è indimostrabile ed assurdo, tutto mi fa credere al contrario ma io ci credo lo stesso, quando sarò morto mi si rivelerà che è così, che c’è vita dopo. 

Un po’ come se chiedessi soldi in prestito a qualcuno dandogli come garanzia i suoi stessi soldi, quelli che gli ho chiesto. 

Il movente della fede è la morte. Senza morte non ci sarebbe “bisogno” di credere nella vita eterna, nella vita dopo la vita. E qui che la fede diventa malafede. Senza quel “bisogno”, si potrebbe parlare ancora di fede, o tutto si regolerebbe sulla vita terrena, su di un credo terreno, un tempo a disposizione, un’etica fondata non su premesse metafisiche ma necessariamente umane? 

(“Se Dio non c’è, allora tutto è permesso” diceva Dostoevskij. Niente di più scorretto. Avete mai visto atei diventare criminali soltanto perché sostenevano l’inesistenza di un dio? C’è davvero una relazione tra questi fattori? Semmai, la storia lo dimostra, l’odio, il tutto è permesso, spunta, fungo velenoso, quando si crede di avere la certezza di un dio esistente e provvidente e somigliante a noi, e a noi soltanto (non agli ebrei, non agli arabi, non agli indiani). 

Che Dio ci sia o no, paradossalmente, parlando di etica, non ha importanza. Non deve avere importanza. Se l’etica è l’insieme di norme che debbono regolare il nostro comportamento negli/con gli altri, al fine di una convivenza pacifica, felice, umana, dio non trova posto. Tirarlo dentro è minare alle fondamenta la possibilità stessa di etica. Se l’etica è fondata da lui, l’uomo che parte ha nel gioco? Chi di noi non cerca, prima o poi, di staccarsi dalla gonna della mamma per provare la sua forza, coscienza, libertà? Chi di noi non ucciderebbe mai un essere umano per il semplice fatto che trova moralmente ingiusto farlo, e non perché dio ha deciso che sia moralmente ingiusto farlo? Se Dio ha deciso, non significa che io abbia deciso. Se io ho deciso, riconoscendo semplicemente l’altro come me e viceversa, dio non ha meriti o colpe. Basta appunto assumersi la responsabilità (onestà) di riconoscere questa similitudine, esistente, fondante, imprescindibile, innegabile). 

Il discorso con uno che ha fede quindi si arena su questo punto, necessariamente: la morte e la presunta vita dopo la morte. La mia fede, da uomo che credo, è tutta orientata e motivata da questo evento umano e dal bisogno di superarlo, in qualche modo. Ecco che l’assurdità della mia stessa fede (che io stesso, fedele, trovo assurda: non sto dicendo che chi crede sia per forza sordo alla ragione, al dubbio, all’inciampo; la fede, forse, per essere tale deve essere vacillante di continuo, o almeno così si dice), la mia fede trova un senso. Credo in un assurdo parziale, momentaneo, per avere il certo eterno, la risposta definitiva. Pascal, con una logica da superenalotto, ce lo spiega benissimo: che cosa ho da perdere credendo in dio? Nulla! Che cosa ho da perdere non credendo? Tutto! Quindi: su cosa conviene scommettere? La risposta pare scontata. Ma, come tutte le cose scontate, nasconde il tranello. 

Io posso decidere di impiegare il mio euro (sprecare?) giocando al superenalotto. Sono liberissimo di farlo. Attenderò fiducioso l’evento (nel caso del superenalotto comunque possibile seppur altamente improbabile), e nell’attesa, in questa attesa, regolerò la mia vita. Oppure io posso cercare di utilizzare il mio euro diversamente, e nell’agire senza attesa regolare la mia vita. Fare come se il superna lotto non esistesse. O meglio: non funzionasse mai. 

(Certo, il paragone non è perfettamente attinente: nel superenalotto qualcuno, prima o poi, vince, ed io di queste vincite favolose ne ho testimonianza. Nella vita dopo la morte no. Ma teniamo l’esempio per buono). 

Ricordandoci che, se l’euro immaginario equivale alla nostra vita, il superenalotto (e l’attesa della vincita) ad una scelta di fede e l’impiego dell’euro in una non attesa, in questo gioco strano e meraviglioso che è l’esistenza dell’universo, noi, uomini, abbiamo solo un euro a disposizione. A differenza del gioco vero e proprio, replicabile più e più volte, qui noi abbiamo solo un tentativo. E l’azzardo più grande. 

Rovesciamo quindi, in maniera ironica, la scommessa di Pascal: io non punto niente, non scommetto in dio, e faccio come se (perché non posso, onestamente, dire che sia così) dio non ci fosse, e quindi non ci fosse vita eterna. Vivrò la mia vita cercando altri sensi, regolandola su altre mete, altri obiettivi, altre priorità e fondamenti. Meno alti, meno eterni, meno trascendentali. Se scopro che dio non c’è (ma al suo posto sta un nulla infinito), la mia vita l’ho comunque vissuta, orientata su qualcosa che, dopo, non avrò più. Se dio invece è presente, e quindi ci regala un’altra, diversa vita, in questo caso si suppone eterna, io avrò comunque vissuto la mia, in maniera profondamente mia. 

Ma se nella puntata del cinquanta e cinquanta del fedele, la scommessa è persa, ovvero dio non c’è, non c’è vita, come è stata utilizzata la vita? Al di là della “delusione” per una vita/ricompensa (questa parola è fondamentale) aspettata (così tanto da credere nonostante l’assurdo) e non ricevuta, la vera vita terrena, quella di cui possiamo essere certi di disporne (perché la stiamo vivendo) non è andata sprecata? Non è stata condizionata dall’attesa, non è stata svilita? Io credo di sì. 

Se mi mettono in mano duecento euro e mi dicono che domani ne avrò duecentomilioni di miliardi, sfido chiunque a godersi, nell’immediato, i duecento euro, a gioirne, a sentirsi ricchi solo con le due banconote da cento! 

Ovviamente mi si replicherà che i fedeli, sia quelli in una buona (mala)fede che quelli in una cattiva (mala)fede, vivono comunque una vita piena, ricca, aperta alle gioie della terra, ai piaceri che esistono a migliaia. Certo. Ma questa vita non la stanno fondando su quelle cose. Bensì su un supervalore che quelle cose di fatto le nega, poiché le supererà, le cancellerà senza trattenerle. Nella vita ultraterrena dei fedeli (di qualsiasi religione) non c’è il nostro mondo, non c’è spazio per i nostri sensi, piaceri, pensieri, istinti: noi saremo altro, saremo in dio e per dio, mai più bisogno, mai più dolore, mai più felicità (che esiste in quanto polarità avversa alla sua mancanza, come alternarsi) saremo luce nella luce a cantare le lodi di dio(permettetemi: che palle!). 

(Nel cristianesimo c’è un tempo indefinito in cui sarà così, poi ci sarà la resurrezione dei corpi sulla terra. Ma sarà un ritorno alla terra, dopo essere stati luce. Si suppone che torneremo in qualche modo cambiati e non sarà più la stessa vita. E allora tanto vale, dopo aver provato la luce di dio, rimanerci). 

Il discorso ci ha portato lontano. Come avrete capito non si è cercato di dimostrare l’inesistenza di dio: si è cercato di dimostrare la non utilità della fede. Il suo andare contro la vita, così come l’abbiamo e la stiamo vivendo. Con il suo carico di dolore e morte (morte che aleggia sempre, che ci condiziona, che ci strappa gli amori più cari), ma anche con il suo carico di felicità meravigliosa, che quella morte allontana ogni secondo, che ce la rende accettabile, ce la fa comprendere, che ci regala, ad ogni battito di ciglia, gli amori più cari.

Lascia un commento